giovedì 22 ottobre 2020

 RICORDO INDIANO - AGOSTO 1987 

     11° parte - Manali





Il viaggio pare infinito. Siamo pigiati come sardine nei nostri sedili, ma almeno non patiamo il caldo. Lungo il percorso ci sono infinite fermate, alcune presso improvvisati baracchini di cibo e chai. Approfittiamo ogni volta per sgranchirci le gambe rattrappite. Il vecchio autobus Tata ha continuato ad arrancare tutto il giorno su per i sentieri scoscesi. Tre marce solamente, tanto quassù a che serve la quarta? I bagagli sono stipati anche sul tetto insieme a qualche passeggero che non ha trovato sedili liberi. Cerco di rilassarmi osservando il panorama senza guardare gli strapiombi e ogni tanto le carcasse dei bus rovesciati. 

Arriviamo nel punto più alto, Rohtang Pass, 3978 metri*. L'aria è fredda e c'è un po' di vento, neanche un albero, solo prati fioriti. Il bus si ferma, scendiamo e a me viene una gran voglia di correre nel prato ma dopo pochi passi mi devo fermare. Non ho calcolato l'altitudine, il fiato è cortissimo, le gambe di cemento... è la prima volta nella vita che sono così in alto in montagna e... sarà pure l'ultima. Unico essere umano lassù: un pastore avvolto in una coperta, col suo cane e il suo gregge. 



Finalmente arriviamo, e mentre mi carico lo zaino sulla schiena, riempio i polmoni di aria tiepida, pulita e profumata. Mi basta quella a far dimenticare la fatica del viaggio. L'albergo in cui ci sistemiamo costa poco ma incredibilmente pulito, con tutti i confort.  Sui letti troviamo persino piumini d'oca e in bagno l'acqua calda. Il proprietario è un ragazzo allegro, sembra un folletto. Siamo eccitati e felici... 

Usciamo a far quattro passi e a mangiare qualcosa. E' tutto diverso, non ci sembra più di essere in India. Notiamo moltissimi rifugiati tibetani. In effetti Dharamsala, dove il Dalai Lama risiede dal 1960, è a 220 chilometri. Nelle botteghe si vendono cose molto diverse. Anche il cibo è diverso e siamo curiosi di assaggiarlo. Entriamo in una minuscola bottega-ristorante, con due tavolini, da dove arriva un buon profumo. La signora tibetana ci sorride, sul bancone c'è un'enorme matassa di spaghetti spessi e gialli, e sul fuoco è pronto un grande pentolone di acqua bollente. Rimaniamo a guardare affascinati mentre lei ci chiede se preferiamo i nuddles, gli spaghettoni, o i momo, grossi ravioli ripieni simili a quelli cinesi. Chiedo cosa c'è dentro i momo e lei risponde allegramente mutton of course! Carne di montone, come se fosse scontato. E vada per la carne di montone mai assaggiata! E' anche la prima volta che mangiamo carne qui in India.

Dopo aver letteralmente divorato i deliziosi ravioloni, facciamo una passeggiata e chiediamo in giro cosa c'è da vedere di bello. La città è piccola, un paese praticamente. Ci indicano le terme di Vashisht, a pochi chilometri, ci si arriva facilmente a piedi, ma occhio a tornare prima del buio! La polizia gira e controlla chiunque, c'è ancora molta tensione tra Punjab e India, e qualche attentato nelle grandi città.
Di buon mattino cerchiamo un mezzo per raggiungere Vashisht poi decidiamo di incamminarci, sono solo tre chilometri e il cielo è terso. Arriviamo e ci rendiamo subito conto di essere in un posto magico. Facciamo conoscenza con una strana coppia, lui si atteggia a baba (=guru), o pseudo tale; convive con lei che è tedesca, e col suo bambino biondissimo. Sono ospitali e ci offrono un buon chai speziato. Lui è molto fascinoso, occhi profondi, lunghi capelli lucidi e profumati raccolti in una crocchia, mani affusolate ed eleganti, voce suadente. Comprendo perché la signora tedesca si è fermata a vivere qui. Chissà di che vivono? Forse vendono charas, la resina dell'hashish, non lo so, e poco mi interessa. Sta di fatto che Massimo ha cominciato a fumare un po' e l'effetto che ha su di lui è a dir poco prodigioso. Niente più litigi e irritazioni, è diventato piacevolissimo viaggiare con lui. Dio sia lodato! "Boom Shankar!" ** 

Ci spiegano dove sono le terme, ci rechiamo là e ci immergiamo nell'acqua calda. Lì vicino c'è un ritrovo di baba e altri che fumano. Mi incuriosiscono, li trovo folkloristici. Non c'è nulla di sacro nel loro atteggiamento, vivono così, fumando e donando perle di saggezza a chi li interpella. E così fa anche il nostro amico che ci intrattiene con disquisizioni spirituali su come la danza di Shiva sostenga il pianeta. 



Una di queste chiacchierate sapienziali si prolunga più del dovuto e ci accorgiamo che è già buio. Non ci sono più bus per tornare a Manali, alle 21 scatta il coprifuoco quindi ci incamminiamo affrettando il passo il più possibile sperando in un passaggio. Sono inquieta. Massimo ride come un incosciente. Ha fumato parecchio e l'ansia non lo sfiora minimamente. Ecco il rombo di un motore in lontananza dietro di noi. Spunta una camionetta militare. Accidenti. Dico a Massimo di smettere di ridere, di tacere assolutamente e lasciar parlare me. Se apre bocca il suo stato alterato sarebbe evidente. L'hashish è illegale qui, solo ai sadhu è concesso fumare per motivi religiosi. Come previsto la camionetta accosta e si ferma. Sfoggio un sorriso innocente e dico che abbiamo fatto tardi, e se per piacere ci danno un passaggio, così non arriviamo in hotel dopo le nove. "Prego, salite pure" poi le solite domande di rito ma niente controllo passaporti. Sono giovani e per niente minacciosi ma comunque dico loro che Massimo non sa l'inglese e lui, annuisce con sorriso beato... Quando arriviamo nella piazza di Manali tiro un sospiro di sollievo. Scendiamo, ci fanno ciao con la mano. E' andata.

* Rohtang Pass, a volte anche chiamato Rohtang La è un Passo di montagna  himalayano, nello stato dell'Himachal Pradesh. Il passo collega la Valle di Kullu con Lahaul. Il nome Rohtang significa "cadaveri" a causa delle parti pericolose dove la strada passa sopra i precipizi. Dal lato sud della strada del passo, sul lato sopravvento del Grande Himalaya, cadono spesso pioggia e neve, che possono peggiorare parecchio le condizioni della strada. Un altro motivo per cui il passo è pericoloso è l'elevato traffico rispetto ad altri passi attraverso l'Himalaya. Io a quel tempo, ovviamente, non sapevo nulla di tutto ciò.

** Boom Shankar! Invocazione al dio Shiva (Shankar): deriva proprio dall'uso del chillum e dal rito praticato dai santoni che, innalzandolo sulla fronte prima di accenderlo, invocano Shiva e gli altri dei affinché giungano a loro per condividere l'hashish. 


CONTINUA CON LA 12° PARTE: 
https://isabeau61.blogspot.com/2021/08/ricordo-indiano-agosto-1987-12-parte.html

martedì 20 ottobre 2020

 RICORDO INDIANO - AGOSTO 1987 

     10° parte - Ancora Delhi e poi Shimla





Mentre il treno si allontana lentamente dalla stazione di Varanasi, davanti agli occhi della mente sfilano i volti, i sadu che fumano e ridono, Pandit e sua moglie, l'immenso e placido Gange, i suoi gaht, i fuochi. Il cuore è pesante e una lacrima sfugge. Difficilmente rivedrò questa città se non in sogno. Forse. 

Torniamo a Delhi. La città sembra un po' più accogliente, sarà l'abitudine. Domani prenderemo il bus per Shimla, si va al nord nell'Himachal Pradesh per raggiungere Manali. Sarà la nostra base per i giri nelle valli che tutti ci raccomandano per loro bellezza. Manali è famosa per il commercio di hashish quindi è la meta di moltissimi che amano fumare questa droga. Noi andiamo per le montagne, i paesaggi e le genti. In realtà ha deciso Massimo e a me sta bene.  

E' tempo di spedire un altro telegramma a casa. All'ufficio postale la solita coda e il solito caldo soffocante. Siamo tutti impregnati di sudore. Ad un certo punto, un profumo conturbante mi fa voltare istintivamente. Si è aggiunto alla coda un Sickh*. Altissimo, col tipico turbante, dalla bellezza mozzafiato. Mi giro verso lo sportello per evitare di fissarlo ma il profumo è insistente come un richiamo. Mi volto di nuovo, mi soffermo sul viso e mi sfugge un sorriso. Ricambia. Il mio cuore accelera talmente che temo si possa sentire. Il calore aumenta ancora e mentre lo sportello si avvicina sempre di più, provo imbarazzo perché vorrei voltarmi di nuovo ma con un grande sforzo ci rinuncio.

Rifletto sull'effetto che la Bellezza ha su di me, la bellezza di un profumo, di un volto, penso alla magia della natura che si è inventata gli irresistibili feromoni per attirare l'altro sesso. Questo profumo dolciastro evoca le belle illustrazioni dei libri di fiabe orientali che sfogliavo da bambina quando, a causa dei frequenti mal di gola, rimanevo a casa da scuola. Mi immedesimavo, facevo sogni ad occhi aperti ascoltando il 45 giri allegato e le melodie delle canzoni mi trasportavano in quei luoghi lontani distraendomi dai malesseri a cui ero ormai abituata. 

Respiro profondamente e mi giro per l'ultima volta per un addio; sorrido all'impiegata e detto il telegramma: TUTTO BENE BELLO POCA PIOGGIA TRA POCO AI MONTI LOVE.


Il bus arriva a Shimla nel tardo pomeriggio. Capisco ora perché era così amata dagli inglesi. Siamo in pieno agosto e il cielo sembra quello di ottobre. Cade una pioggerella finissima e sulle montagne le nuvole sono bianche, basse e sfilacciate. Siamo circa a 1900 metri, non fa freddo ma l'umidità mi provoca forte disagio. Troviamo un alberghetto di legno e io approfitto per mettermi addosso tutto quello che ho di caldo. Facciamo un giro e capitiamo nel bel mezzo di una festa, molto composta e graziosa, dove ci sono ragazze che danzano e cantano, qualche uomo suona e poi si unisce a loro per fare una specie di piramide umana. La semplice allegria di questa gente ci dà il benvenuto in questo stato himalayano. 
Mangiamo una zuppa calda e andiamo a dormire vestiti a causa dell'umidità. Meglio riposare, ci aspettano dodici ore di viaggio per fare 237 chilometri. Non vedo l'ora di andarmene...


* Sikh Comunità religiosa e politico-militare dell'India. Fu fondata nel Punjab da Nānak (1469-1538) nell'intento di unire indù e musulmani nella fede in un Dio unico, che non doveva essere rappresentato con figurazioni materiali, e nel rifiuto di ogni distinzione castale.

CONTINUA CON LA 11° PARTE:
https://isabeau61.blogspot.com/2020/10/ricordo-indiano-agosto-1987-parte.html

mercoledì 23 settembre 2020


HAIKU

 



L'acero ascolta. Il fiume è già rosa. 

Le anitre scivolano silenziose verso la sera.

sabato 29 agosto 2020

                                                         RICORDO INDIANO - AGOSTO 1987 

     9° parte - Varanasi




"Varansi Varansi Varansi!" Tutti hanno in bocca il nome della città pronunciato in questo modo abbreviato. Finalmente si scende. Dal 1947 nessuno qui la chiama più Benares come l'avevano ribattezzata gli inglesi. Fondata circa 3500 anni fa, il suo primo nome fu Kashi*, la città della luce.

Scendiamo dal treno, incubo finito. Respiro, l'aria più fresca. Cerco subito un risciò a motore, una specie di Ape, e prego di portarci velocemente ad una bottega, un baracchino, un bar, insomma qualsiasi posto dove vendano acqua minerale o altre bibite. Ci carica e corre veloce. Mentre arriviamo al primo albergo possibilmente non troppo economico che conosce, visto che siamo distrutti, cominciamo a bere. Quando scendiamo ci siamo già scolati un litro d'acqua, una Campa Cola e un succo di mango a testa. 

L'albergo è decisamente più confortevole del solito; per l'equivalente di 10.000 lire, invece delle solite 2000, abbiamo l'aria condizionata (che non accendiamo comunque), un letto comodo e pulito, cibo anche "continentale", come lo chiamano gli inglesi.
Mi faccio la doccia, mi guardo allo specchio e noto che la mia pancia è molto gonfia per tutti i liquidi ingurgitati. In compenso tutto il resto è un po' rinsecchito; mi stendo sul letto e mi godo la frescura delle inusuali lenzuola profumate.
L'acqua e il breve riposo mi fanno riprendere come una piantina dopo la pioggia. Sento la voglia irrefrenabile di correre al Gange** il sacro fiume. Arriviamo al tramonto e lo spettacolo è a dir poco abbagliante.

Sono persa nella visione. Tutto è tranquillo ed emana pace. La luce dorata del tramonto a poco a poco sfuma in un azzurro intenso, i canti, l'odore intenso dell'incenso, la gente intenta a bagnarsi, a lavarsi, a pregare sui i ghat, grandi gradini che portano al fiume. Tutto è perfetto. Dietro di noi udiamo cantare sommessamente. Un gruppo di persone segue un padre che tiene in braccio un piccolo corpo avvolto in un lenzuolo bianco. Nessuno piange. Il corteo si dirige verso una pira accesa. Distolgo lo sguardo per rispetto a questo rito privato così composto, così rassegnato, così dignitoso.

Decidiamo di prendere una barca per un giro sul Gange con alcuni pellegrini indiani. Il fiume è verde e tanti fiori galleggiano sulla corrente. L'atmosfera è particolarissima difficilmente descrivibile a parole. E' un misto di devozione, sacralità, magia. La luce del tramonto colora tutto di malinconia e i canti struggenti si perdono nell'odore dolciastro dell'incenso.      





Il mattino dopo cerchiamo un risciò che ci porti a visitare la città. Qui i risciò sono ancora quasi tutti a pedali portati da magri indiani scalzi. Imbarazzo. Ci avvicina un piccolo uomo, un paria. Dice di chiamarsi Pandit, si presenta in inglese e ci mostra orgoglioso il suo book, un quaderno in cui tanti turisti hanno scritto complimenti, ringraziamenti e dolci parole di saluto e augurio. Ci sono anche alcune foto con loro, la sua candida intraprendenza ci colpisce. Lui arriva ogni mattina alle dieci per 4-5 giorni per portarci in giro dove vogliamo. Meglio che cambiare ogni giorno o più volte al giorno.

Pandit si rivela una persona meravigliosa. Con un inglese elementare riusciamo a parlare di un po' di tutto: la sua vita di paria, un pasto al giorno alla sera, una moglie e due figli, tanti turisti da tutto il mondo, la vita a Varanasi, la marijhuana che qua cresce ovunque lungo i muri. Le mucche la mangiano spesso e rimangono imbambolate in mezzo alla strada bloccando il traffico. I ricordi di Varanasi sono sfocati, costante stato di benessere estatico. Mi piace tutto: il fiume, la luce, gli odori, i negozi, il cibo, i viali, Pandit che ci trasporta allegramente. 

Facciamo partecipe Pandit del terribile imbarazzo che ci prende nel farci trasportare da lui che fatica sotto il sole, come odiosi colonizzatori. Ci spiega che non dobbiamo sentirci così perché è il suo lavoro, vive di questo, e se non ci fossero i turisti come noi non guadagnerebbe nulla. Saliamo e cerchiamo di goderci il viaggio. Pandit ci aspetta è sotto l'hotel alle dieci meno un quarto. Ci consiglia sempre sui prezzi e ci porta dove vogliamo. Andiamo a prendere un lassi e lo invitiamo ad entrare nel locale. Ci dice che ci aspetta fuori. Insistiamo e lui ci dice che non può. "Perché non puoi?" "Perché sono un paria, non posso entrare nei locali pubblici", "Ma ci siamo noi", insiste Massimo, lui indietreggia, ringrazia ma ribadisce che è sconveniente e che ci aspetta fuori. 

Entriamo nel locale, ordiniamo tre lassi per consumarli fuori insieme a lui. Gli dico che è vergognosamente anacronistico e che personalmente non accettiamo questo sistema che fu comunque abolito ufficialmente nel 1950. Ci dà ragione ma dice che non si può far nulla e che tanto vale non prendersela e cercare di vivere bene lo stesso. Ancora saggezza di umili persone. Supremo insegnamento. A ribellarsi dovrebbe essere l'intera società ma evidentemente la coscienza non è ancora così pronta e sicuramente questo sistema fa ancora comodo a troppi.



Arriva il nostro ultimo giorno anche a Varanasi. Facciamo un giro a piedi per curiosare nelle botteghe. Mi attira una di profumi e oli essenziali. In negozio c'è una donna che parla inglese molto bene. Parliamo di profumi e poi finiamo per parlare di Varanasi e dell'India in generale. Un'amabile conversazione, sarà l'unica intrattenuta con una donna in quaranta giorni di viaggio.
Ci facciamo riportare sul Gange e rimaniamo a chiacchierare con alcuni ragazzi che fumano grossi chillum. Essendo una pianta sacra al dio Shiva, viene usata da millenni per i riti e questi giovani semplicemente approfittano del clima permissivo e dei tanti sadu che fumano per motivi religiosi. Ci sembrano allegramente sballati e anche Massimo si unisce alla compagnia per una tirata o due. Ci confermano che a Varanasi la marijuana è legale e Pandit ci offre di portarci a bere un buon bhang lassi***.
Siamo ormai in grande confidenza e mentre beviamo, non senza un po' di trepidazione, la dolce bevanda,  Pandit ci invita a cena a casa sua. Incredibile.

Passiamo in albergo a lavarci e cambiarci e diamo appuntamento a Pandit per venirci a prendere più tardi. Dopo circa un'oretta l'effetto del lassi "drogato" comincia a farsi sentire. Mi prende un'irrefrenabile voglia di ridere e scherzare e anche Massimo è dello stesso umore. Finalmente, dopo circa quindici giorni riusciamo a stare bene insieme, faccio fatica a vestirmi a causa dell'assurda ridarola e accenniamo persino a qualche affettuosità. Viva Shiva e la sua pianta sacra!

Pandit arriva con il suo risciò, puntuale, cambiato e un po' più elegante. Noi giustifichiamo la nostra "allegria" incolpando il lassi e ci facciamo trasportare nella sera da questo omino gentile, la mente completamente libera. La vita mi pare una meravigliosa avventura.


La casa di Pandit consiste in una stanza al piano terra e un'altra al piano di sopra ma senza collegamento interno. Quasi tutto lo spazio è occupato dal letto sul quale ci fa accomodare dicendoci che arriverà sua moglie che sta finendo di preparare. La porta è aperta per far entrare aria visto che non ci sono finestre e alcune teste si affacciano per curiosare. Sono i vicini, spiega Pandit, incuriositi dagli strani ospiti. Sua moglie arriva con due grandi vassoi di pietanze profumate e fumanti. Ci alziamo per salutare all'indiana ma lei, dopo aver posato i piatti, ci saluta inchinandosi e sorridendo, ed esce in retromarcia. Diciamo a Pandit di chiamarla e dirle di rimanere, ci farebbe molto piacere averla qui con noi; ci spiega che per lui non sarebbe un problema ma che lei non intende stimolare pettegolezzi. L'allegria si smorza un po' e cominciamo a mangiare in silenzio mentre notiamo le teste di alcuni vicini che si sporgono all'interno dalla porta aperta sul cortile.

Pandit comincia a parlare dicendo che i suoi bambini stanno mangiando sopra con la madre e, scostando una tendina, ci mostra con orgoglio i loro quaderni di scuola su uno scaffale. Dice che non vuole altri figli perché desidera che studino, non vuole che facciano la sua stessa misera vita. Ovviamente gli diamo ragione e mentre parla sento una strana vicinanza con questo uomo. Mi accorgo di sapere in anticipo ogni singola parola che sta per pronunciare ma la cosa non mi sorprende, anzi, mi pare una logica conseguenza del legame che si sta creando tra noi.
Ci confessa di avere, per se stesso, un unico grande desiderio: vedere Venezia. Col nodo in gola recito dentro di me una preghiera per lui. Incredibile Pandit dall'età indefinibile... chissà dove sei ora? 

Ho la sensazione che dietro la tendina, al posto dello scaffale, ci sia una stanza. La sensazione è così reale che mi ritrovo a scostare la tenda ogni dieci minuti. Il cibo è di una bontà indescrivibile e non c'è paragone rispetto a ciò che mangiamo nei ristorantini. Come ormai abbiamo imparato, si usa solo la mano destra, si ride e si chiacchiera ancora fino a tardi perdendo la concezione del tempo. E' buio già da un po', e Pandit ci deve riportare all'hotel, ma prima Massimo vuole provare a guidare il risciò. Io e Pandit ci accomodiamo ridendo. La schiena di Massimo sembra enorme rispetto a quella che avevo davanti da giorni. Cerca di pedalare ma non sembra così semplice e dopo qualche tentativo fallito rinuncia tra le nostre risate scomposte.

Ci diciamo addio in strada davanti all'albergo e penso che pochi addii sono stati così struggenti nella mia vita. Il cuore si spezza. Forse è stato più triste solo quello che avevo dato a Dave, all'aeroporto di Chicago, nell'agosto di sei anni prima, dopo ben quattordici mesi di convivenza passati negli Stati Uniti.




* Nel Ṛgveda, uno dei quattro sacri Veda, la città viene chiamata Kāśī (Kashi) dalla radice verbale sanscrita kaś- che significa "risplendere", perciò viene anche chiamata la "Città della luce". I testi religiosi indù fanno riferimento a Varanasi utilizzando numerosi epiteti, come Avimukta (=mai abbandonata" da Shiva), Ānandavana (=la foresta della beatitudine), e Mahasmashana (=il grande luogo delle cremazioni).

** Il Gange è considerato la forma materiale della dea Ganga.

*** Bhang è il nome Hindu per Cannabis. Il bhang lassi è a base di cannabis, miele, spezie, yogurt e frutta  

**** Le caste sono quattro: i Brahmani sacerdoti e intellettuali, i Kshatriya guerrieri e nobili, i Vaishya mercanti e artigiani, i Shudra servitori. Infine vengono i Dalit, o intoccabili che si trovano al di fuori del sistema delle caste e svolgono mestieri ritenuti impuri. L'origine del sistema delle caste è ancora un enigma e vi sono tre teorie antropologiche che cercano di spiegarla.


CONTINUA CON LA 10° PARTE
https://isabeau61.blogspot.com/2020/10/ricordo-indiano-agosto-1987-parte-delhi.html

 

domenica 16 agosto 2020

     RICORDO INDIANO - AGOSTO 1987 

     8° parte - Agra


  

Dopo sei giorni in questa oasi di pace, torniamo a Delhi col solito bus ma ripartiamo subito il giorno dopo. Vogliamo raggiungere la città santa di Varanasi, nello stato dell'Uttar Pradesh, un tempo chiamata Benares dagli inglesi. Il viaggio in treno si prospetta di circa dodici ore quindi decidiamo di spezzarlo facendo tappa ad Agra, a soli 150 km, dove si trova uno dei simboli dell'India: il famosissimo mausoleo Taj Mahal*.

Primo impatto con i lentissimi treni indiani... c'è ancora la terza classe, la usano i contadini che salgono con i sacchi di merci e si siedono per terra perché i vagoni sono senza sedili, tipo carro bestiame con le porte aperte. Invece in prima e in seconda classe, dove siamo noi, ci sono delle sbarre ai finestrini senza vetro. Certo nessuno può sporgersi e cadere, ma neanche uscire in caso di emergenza! Scaccio i brutti pensieri leggendo Siddharta di Hermann Hesse, che mi accompagna fedele.

Arriviamo ad Agra nel tardo pomeriggio, è appena piovuto e l'aria è abbastanza fresca. La stazione è ancora più "indiana" di quella di Delhi, le mucche sono ovunque, persino sui ponti sopraelevati di passaggio. Io però non mi sento benissimo. Stavo chiacchierando molto piacevolmente mentre bevevo l'ultimo lassi a Pushkar... forse non ho controllato, ci doveva essere del ghiaccio che evito sempre accuratamente per evitare di prendermi l'ameba, terrore di ogni turista occidentale. Noi occidentali non hanno gli anticorpi per l'ameba come gli indiani, quindi bisogna evitare di bere acqua dalle fontane, di mangiare frutta appena lavata con la buccia, e qualsiasi bevanda che sia fatta con acqua o con aggiunta di ghiaccio. Trovare acqua minerale non è facilissimo ma non impossibile, e se non si trova quella, ci si accontenta delle bibite dolciastre al mango o della Campa Cola**, la versione hindu della Coca Cola. "Se non bevi Campa Cola in India non campi". La battuta di spirito viene fin troppo facile... 

Ci sistemiamo in uno dei soliti alberghetti economicissimi, sento di avere un po' di febbre e comincio a pregare che sia solo la famosa ed innocua maledizione del viaggiatore. Massimo va subito a visitare il Taj Mahal e io rimango sola nella mia stanzetta sotto le pale del ventilatore che girano lente. Massimo ha dimenticato la macchina fotografica... per oggi niente meraviglia del mondo.


Va un po' meglio il giorno dopo ma sono ancora disturbata. Nel tardo pomeriggio ripassiamo dal Taj Mahal, lo voglio vedere almeno da fuori, la visita sarebbe troppo lunga. Il caldo è veramente insopportabile. L'impressione è che sia tutto luccicante, come fatto di zucchero (l tempo ha alterato i colori delle diapositive virandole al blu, ma ho voluto lasciare così com'è la foto. Mi sembra l'altro ieri... sono passati trentatré anni.)

Non vedo l'ora di ripartire. Il ragazzo tedesco incontrato al Taj Mahal parla delle zanzare di Varanasi e ci consiglia di iniziare la profilassi con la clorochina. All'inizio del viaggio mi lavavo i denti con l'acqua minerale, prima di bere mettevo  gocce di amuchina anche in quella e prendevo clorochina poi mi sono rilassata pur rimanendo vigile e ho cominciato a godermi la realtà nella quale mi trovavo cercando di fluire il più possibile senza fare resistenza. Da lontano sembra sempre tutto più pauroso e terribile. Ho constatato che prendersi malattie serie non è così facile e col monsone in ritardo di zanzare neanche l'ombra. 

Il giorno dopo alla stazione, solita coda estenuante per i biglietti. Arrivo davanti allo sportello alle 12 meno un minuto e il bigliettaio tira giù la grata! "Eh no! Non sono ancora le 12!!" - "Sorry lady, now we close" (=Scusa signora, ora si chiude).
La forza della disperazione mi tira fuori un'insospettabile cipiglio da colonialista bianca e alzo la voce: "Call me your boss!" (=Chiamami il capo). L'impiegato riapre subito lo sportello e ci fa i biglietti... 
Mi ritrovo a riflettere sul potere che esercita la razza bianca alla quale appartengo. Da un lato il sollievo del poter evitare un ennesimo disagio fisico, dall'altro profonda vergogna. Vero è che gli indiani sono rigidi e la loro burocrazia asfissiante, ma questo non giustifica gran che.

Saliamo sul treno, lo zaino mi ha procurato due escoriazioni sulle clavicole che cominciano a dar noia e non vogliono guarire. Disinfetto, spalmo crema antibiotica, metto sopra fazzolettini puliti. I passeggeri osservano inespressivi queste operazioni come se guardassero un programma un po' noioso in tv.
Una bella signora con due bimbi siede di fianco a me. I bimbi dormono, il piccolo in braccio, l'altro di circa sei anni appoggiato alla mamma. Il viaggio è lungo. Dopo due ore il neonato viene cambiato velocemente e con gesti sicuri senza che nessuno si accorga di nulla. La mamma è molto dolce e attrezzatissima. Il più grande si sveglia, chiede acqua, beve e torna a dormire. In dodici ore ho sentito la sua voce solo due volte per chiedere acqua e cibo. Penso ai nostri lamentosi mocciosetti e alle loro madri apprensive e appiccicose e sento pena per la nostra società che tanto si auto-incensa per le sue grandi conquiste.

Ci svegliamo all'alba dopo una notte da incubo, nella cuccetta nella quale non riuscivo né a ripararmi, né a lamentarmi, per l'aria che entrava forte dal finestrino spalancato. Io e Massimo nella notte abbiamo finito l'acqua minerale. La sete che diventa sempre più insopportabile. Lui è in stato catatonico, io agitata perché perdo acqua non solo col sudore... la cosa si fa seria. Ad ogni stazione scendo di corsa dal treno e cerco affannosamente i soliti venditori di bibite ma, ahimè, vedo solo fontanelle ma non posso rischiare. Sul treno passano i bambini-venditori di tè bollente con le tipiche scodelline di terracotta*, quelle che tutti buttano a terra e che si disintegrano in breve tempo con le intemperie. Purtroppo è come versare cucchiaiate d'acqua in una barca con la falla. All'ennesima stazione, sempre più disperata, mi trattengo sul marciapiede forse un po' di più e il treno accenna lentamente a ripartire. Corro veloce e prima che il treno cominci ad accelerare, riesco ad agganciare il maniglione della terza classe e a salire con un balzo. Mi ritrovo in mezzo a un gruppo di anziane contadine accovacciate a terra in mezzo a sacchi di mele. Mi guardano mute. Accenno un sorriso. Una di loro sorride in risposta. Mi accovaccio guardando fuori dalla porta aperta. Non ho voglia di morire di sete... Scopro che non posso accedere al nostro vagone perché la terza classe è chiusa al resto del treno. Immagino Massimo che mi dà per dispersa. Provo di calmare l'ansia. Ho la lingua appiccicata al palato, so che ora è bianchissima, cerco di produrre saliva e di inumidire le labbra ma non riesco. 

La contadina che mi ha sorriso nota i miei sforzi e mi offre una mela. Faccio no con la testa indicando la bocca secca ma lei insiste facendo il gesto di succhiare la mela invece di morderla... saggia donna... Il succo acidulo mi dà un po' di sollievo. Ancora linguaggio non verbale, ancora immediatezza. 

Il treno si ferma, saluto calorosamente, salto giù di corsa e risalgo in seconda classe. Raggiungo Massimo e lo trovo che dorme tranquillo con la bocca aperta. Probabilmente non si è accorto di niente.
Altra lezione sull'ansia: è quasi sempre immotivata oltre che inutile.

 Tazzine di terracotta. Da molti anni sono di plastica e contribuiscono all'inquinamento praticamente inesistente al tempo di questo viaggio, nel 1987

** Il Tāj Maḥal è un mausoleo situato ad Agra, nell'India settentrionale (stato di Uttar Pradesh), costruito nel 1632 dall'imperatore moghul Shāh Jahān in memoria dell'amatissima moglie preferita Arjumand Banu Begum, meglio conosciuta come Mumtāz Maḥal. Nonostante vi siano molti dubbi riguardo al nome dell'architetto che lo progettò, generalmente si tende a considerare Ustad Ahmad Lahauri il padre dell'opera. Compreso dal 9 dicembre 1983 nella lista dei patrimoni dell'umanità dell'UNESCO e inserito nel 2007 fra le nuove sette meraviglie del mondo, è da sempre considerato uno delle più notevoli bellezze dell'architettura musulmana in India.

*** Campa Cola era una marchio relativo a una bibita in vendita in India fino al 2000. Leader del mercato in alcune regioni del paese finché non sbarcarono i due colossi Pepsi e Coca Cola dopo le liberalizzazioni del mercato attuate dal Primo Ministro Pamulaparthi Venkata Narasimha Rao nel 1991. Campa Cola fu creata dalla Pure Drinks Group Pvt. Ltd. nel 1977, ed è da considerarsi la pioniera delle bibite nel paese asiatico, anche perché vi introdusse la Coca-Cola nel 1949. La Coca-Cola fu cacciata dall'India negli anni settanta. Quindi la società monopolizzò l'intera industria indiana delle bibite per 20 anni senza concorrenza alcuna soprattutto da parte degli stranieri.



CONTINUA CON LA 9° PARTE:

https://isabeau61.blogspot.com/2020/08/ricordo-indiano-agosto-1987-parte_29.html

giovedì 13 agosto 2020

                                                        RICORDO INDIANO - AGOSTO 1987 

           7° parte - Pushkar 


                            Che brutta invenzione il turismo! Una delle industrie più malefiche. 
Ha ridotto il mondo a un'enorme giardino d'infanzia, a una Disneyland senza confini.
Tiziano Terzani, "Un indovino mi disse"





Una donna sta lavando i panni al lago. La osservo nei suoi movimenti precisi e senza fretta.
E' bellissima. La sua bambina gioca per terra lì vicino, sui gradoni. La controlla con la coda dell'occhio senza parlare. Quando ha finito, prende in braccio la bimba, si copre il viso col velo giallo e sta per raccogliere i panni. Si accorge di me con la mia stupida macchina fotografica e si apre in un sorriso che mostra una chiostra di denti perfetti. Le faccio segno di mostrare il volto ma lei scosta il velo solo a metà come se la sua bellezza fosse un tesoro da proteggere.

I sei giorni a Pushkar, che dovevano essere tre, sono finiti. La sera mi assale la malinconia e cerco di imprimere nella mente ogni immagine, ma tutto turbina nel vortice del tempo che tutto inghiotte e trasforma. Ineluttabile destino della materia. 
Pushkar è una città antichissima, una delle più antiche città dell'India. La data di fondazione è sconosciuta. Penso alle genti che hanno vissuto qui nei secoli, che hanno visto altre trasformazioni e hanno sentito malinconia per altri ricordi.

Come sarà stata questa città prima del colonialismo inglese? Sicuramente più ricca. Il colonialismo ha snaturato completamente l'economia indiana. Ma quante volte avrà cambiato il suo aspetto e le sue genti, i suoi costumi, la religione...
Prima degli inglesi vennero i Moghul nel XV e XVI secolo, e prima ancora i musulmani dal IX secolo in poi, e prima i misteriosi Gupta, prima di Cristo il grande imperatore Asoka diffuse il buddhismo cercando di limitare la violenza, prima ancora i Persiani e poi i Greci di Alessandro Magno, ancora indietro la civiltà dell'Indo, e ancora prima la civiltà vedica, e prima... le prime genti Dravidiche non ariane e i Munda.

Tutta questa umanità ha lasciato qualcosa di sé e gli strati in India si avvertono ancora tutti.
L'attrazione fatale che esercita forse dipende proprio da questo suo densissimo passato che qui sembra ancora sopravvivere nelle pietre, nei misteriosi tempietti umidi e bui dedicati a Shiva, il dio più venerato e potente, il Signore della Vita e della Morte.





Prima di lasciare Pushkar e il Rajastan, la "terra dei re" mi costringo a scattare qualche foto per immortalare soprattutto gli anziani che sembrano usciti da un libro di favole orientali.
Quando però mi trovo davanti un Naga Baba, un sadhu asceta shivaita con solo un triangolo sul pube, coperto di cenere bianca e con i capelli mai tagliati raccolti in enormi dread e in mano il tridente, uno dei simboli del dio, non ho osato fotografarlo. Scendeva con calma i gradini schivando i cani che dormivano all'ombra con il suo incedere regale; visione di un altro mondo.




Durante uno dei nostri giri in una parte non molto abitata del paese, veniamo colti da un improvviso scroscio di pioggia. Ci sistemiamo sotto una tettoia in attesa che passi. Ma il monsone non sembra aver voglia di smettere, anzi l'acqua comincia a venir giù di stravento bagnandoci sempre di più. A mala pena vediamo dall'altra parte della strada, tanto piove fitto. Ad un certo punto arriva una grande auto e si ferma in mezzo alla carreggiata. Dopo qualche istante vediamo che il finestrino si abbassa e spunta una mano che fa segno di avvicinarsi: Come inside, come inside! ci urla l'uomo al posto di guida. Ci guardiamo stupiti. La nostra mente occidentale si interroga: cosa vorrà da noi? Quale inganno o fregatura nasconde? Senza parlarci corriamo verso l'auto, la portiera posteriore si apre per farci salire. L'auto è letteralmente piena di bambini vivaci, quattro, forse cinque, davanti il padre, la madre con un neonato in braccio. Si scostano per farci posto, ridono e parlano in continuazione, fanno a gara per donarci tutti qualche cosa, un braccialetto, una matita, un dolcino... Frughiamo nello zainetto e nelle tasche in cerca di qualcosa per ricambiare, per lasciare una traccia di noi, un ricordo di questo incontro gioioso e inaspettato. Siamo imbarazzati e commossi, cosa abbiamo fatto per meritare tutte queste feste? Non c'è bisogno di alcun merito, la gioia dell'accoglienza non ha bisogno di alcun motivo, è pura come è puro il sorriso e la generosità di questi bimbi e dei loro genitori. Un gesto così spontaneo e naturale come dare riparo a due passanti inzuppati, da noi è ormai una stranezza, un evento raro, quasi impossibile. Il monsone smette quasi all'improvviso lasciando l'aria fresca. L'auto si allontana mentre tante manine e testoline fanno ciao sporgendosi dai finestrini.
Rimaniamo muti a guardarla finché sparisce dalla nostra vista.



CONTINUA CON LA 8° PARTE:


RICORDO INDIANO - AGOSTO 1987 
6° parte - Pushkar




Massimo si è completamente ristabilito; decidiamo di fare una lunga passeggiata intorno al paese e al lago. Man mano che ci lasciamo dietro le abitazioni, entriamo in un territorio sempre più spoglio e desertico. Il suolo è quasi sabbioso e nel cielo roteano grandi uccelli che non riusciamo, neanche questa volta, a identificare. Procedendo sulla strada che a tratti curva seguendo il lago, veniamo investiti da un fetore terribile e indefinibile. Notiamo che i grandi uccelli roteano verso il basso fino a toccare terra riunendosi intorno a qualcosa sul terreno e a questo punto è tutto chiaro: i cinque enormi avvoltoi sono stati attirati dall'odore di una carcassa di maiale... la vediamo chiaramente, con le costole semi scarnite. Ci fermiamo in silenzio ad osservare, il fazzoletto premuto sul naso, onorando questo momento di riflessione attonita: Memento Mori. Il ciclo della vita ci si staglia davanti nel suo aspetto terrifico. Maya, l'illusione dei sensi, ci ottenebra la vista della Luce presente anche in questo aspetto. Gli avvoltoi ripuliscono le ossa dei cadaveri e hanno in sé il potere di annientare qualsiasi battere con il loro potentissimo acido gastrico.

Dopo mezz'oretta circa di cammino un altro incontro straordinario.
In lontananza due puntini si avvicinano nell'aria tremolante. Dopo qualche minuto scorgiamo la sagoma di due bambine di circa otto, dieci anni. Si sbracciano. Forse chiedono aiuto... si saranno perse... Una delle due porta in braccio un grande fagotto. I gridolini di gioia si intensificano mentre si avvicinano e dai gesti capiamo che vogliono mostrarci qualcosa, qualcosa di prezioso che tengono stretto nel pesante fagotto. L'idioma cantilenante e le testoline dondolanti come si usa qui quando si vuole dire sì o invitare qualcuno, ci incuriosiscono. Il nostro tentativo di comunicare in inglese viene totalmente ignorato e continuano a squittire in hindi. Quella che tiene il fagotto più grande di lei, lo apre e... appare un neonato paffuto che geme leggermente... ma sostanzialmente beato tra le braccia della probabile sorella o cugina, qui è lo stesso.

A bocca aperta, gli occhi sgranati, rimaniamo impalati e muti davanti alla assoluta Bellezza che ci sta di fronte. Forse dopo due femmine i genitori erano felici di avere finalmente un maschio e le bimbe paiono altrettanto entusiaste a tal punto da volerlo mostrare a due sconosciuti, bianchi come fantasmi. La comunicazione non verbale regna sovrana e ogni convenevole è azzerato dall'immediatezza degli sguardi e dei sorrisi. Massimo pronuncia istintivamente qualcosa in italiano: "Fratellino?", e come se avessero compreso il significato, dondolano all'unisono la testa. Sento le lacrime salirmi dal cuore e appannarmi la vista... la bocca si apre ma un nodo stringe la gola. Medito per un attimo. Non voglio "rubare" questa immagine con un gesto prosaico da turista. Mi decido a scattare perché intuisco che è forse l'immagine più preziosa del viaggio, il ricordo più dolce. Oltre che nella mia mente, voglio che rimanga sulla carta. Una poesia indimenticabile. Torniamo in paese al tramonto e non ricordo altro di quella giornata illuminata.





Il giorno dopo un altro incontro: una bambina molto povera, la prima che vedo, in realtà, visto che a Pushkar non ho ancora visto miseria, ma solo quella che noi occidentali chiamiamo povertà. Chiede elemosina insieme al fratellino andandosene in giro con un barattolo col manico come fosse una borsetta, per raccogliere offerte. Si accovaccia, forse stanca, e mi fa il tipico gesto di mangiare allora mi avvicino ad una bottega e ordino tre lassi alla banana senza ghiaccio. Lei mi guarda sorridendo, senza capire. Quando sono pronti porgo i grandi bicchieri d'acciaio. Rimangono a guardarmi con il bicchiere in mano senza parlare. Faccio il gesto di bere e per incoraggiarli inizio a sorseggiare il mio lassi.
Il piccolino beve la dolce bevanda quasi tutto d'un fiato mentre la sorella ondeggia la testa sorridendo. sono abituati a portare a casa senza consumarlo, ciò che ricevono ma con il lassi è impossibile. Dopo qualche esitazione comincia anche lei a bere lentamente, senza togliermi gli occhi di dosso. Occhi enormi, occhi pieni di stupore. Mi rendo conto che quel gesto, per me scontato, è per loro un miracolo. Dopo aver bevuto cerco di comunicare ancora qualche cosa a gesti e lei ride divertita dei miei buffi sforzi.

Quando il mal d'India mi assale, osservo queste foto e fantastico sulla vita di questi bambini, forse durissima, magari migliore per la ricchezza portata dal turismo, forse comunque benedetta dalla felicità semplice di chi ha poco e si sente ricchissimo perché ha cibo, un tetto, ed è amato. 
Pushkar è ora una meta affollata soprattutto a novembre durante i cinque giorni del Pushkar Mela, la fiera dei cammelli che è ormai una mera attrazione turistica che attira circa 500.000 persone che si riversano negli eleganti hotel di stile esotico e nei sessanta ristoranti della città raddoppiata.  A volte sogno di tornare a cercarli, ritrovarli, e passare con loro il resto del mio tempo in India, l'India che ormai è solo nella mia mente.






CONTINUA CON LA 7° PARTE:





 

mercoledì 12 agosto 2020

O virúss


Napoli è bellissima come sempre. Febbraio tiepido e il Carnevale passa inosservato perché oltre ad essere ormai obsoleto ovunque, qua è ancora più assurdo, visto il carattere della città già carnevalesca di suo... L'allegria scanzonata e fatalista della gente dei vicoli è sempre la stessa, ogni volta che torno mi imbatto in qualcosa di sorprendente. Questo giro la sorpresa è stato Alfonso, un'anima antica e sdentata che nel bellissimo Palazzo Venezia ristrutturato da giovani volenterosi della Napoli bene e trasformato in centro culturale con magnifico giardino pensile, canta canzoni napoletane per i turisti per puro diletto e autentica passione. A volte ci guadagna un caffè...
E' povero Alfonso, non ha neanche il telefonino, ma con quella ansiolitica e contagiosa gioia napoletana che mi fa dimenticare ogni ansia, ogni preoccupazione, ogni dolore. 


La pandemia era già arrivata nel nord Italia portando con sé il suo strisciante carico di divisione tra le persone e paranoia collettiva, pestilenziale morbo dell'anima.
Un personaggio istrionico, ad un incrocio di vicoli propone un vaccino 
contro "o virùss": aglio da mangiare crudo e molto lentamente. La migliore e sicura prevenzione, basta allontanare la gente!
Insomma si scherza alla grande e solo qualche turista orientale porta la mascherina sulla circumvesuviana affollata. Napoli sembra immune dal terrore e dalla paranoia, in tutta la regione c'è un solo caso accertato.
Purtroppo, dopo pochi giorni, ha ceduto anche lei e si è spenta come una candela, consumata dalla paura. 
Tre giorni e sono di nuovo a Torino. In confronto l'atmosfera è spettrale, tre giorni come tre mesi. E pensare che stavo per rinunciare a partire!! Mai ascoltare la voce della paura... Se non è per pura incoscienza, è meglio non ascoltarla, è una cattiva consigliera. Sono felice di non dover vedere Napoli silenziosa e rassegnata, i vicoli vuoti, le bancarelle e le botteghe chiuse, i motorini fermi.

Poi dopo qualche giorno, in rete vedo che qualcuno si inventa la tombola alla finestra!
Mi commuovo e vorrei essere là. La quarantena è motivo per nuove modalità comunicative, lazzi e sarcasmo esorcizzante. 

I napoletani sono assuefatti alla paura, vivono da sempre sotto "a muntagna", il vulcano attivo il cui cratere è così grande che da certe prospettive sembrano due monti. Sbotta ogni due-tre secoli e ogni circa mille fa un disastro... 
Però c'è anche San Gennaro, il veneratissimo nume tutelare della città, un famigliare celeste che tiene a bada le forze della Natura e protegge la città delle contraddizioni. 
"Ma quando finirà 'sta storia del virúss?", "A da passà a nuttata..." che vuol dire: non si può fare niente, bisogna pazientare, aspettare che passi la notte. 





lunedì 20 luglio 2020

A bluebird in my heart

by Charles Bukowski






There's a blue bird in my heart that wants to get out but I'm too tough for him,
I say "stay in there and don't let anybody see you".

There's a blue bird in my heart that wants to get out but I pour whisky on him than inhale sigarette smoke
and the whores and the bartenders and the grocery clerks never know he's in there.

There's a blue bird in my heart that wants to get out but I'm too tough for him,
I say "stay down! Do you wanna mess me up? Do you wanna screw up the works? You wanna blow up my book sales in Europe?"

There's a blue bird in my heart that wants to get out but I'm too clever, I only let him out at night sometimes when everybody is asleep.

I say "I know you're there, so don't be sad" then I put him back but he's singing a little in there.
I haven't quite let him die and we sleep together like that with our secret pact that is nice enough to make a man weep. 

But I don't weep. 
Do you?

C'è un uccello blu nel mio cuore che vuole uscire ma io sono troppo tosto per lui,
Dico "Resta lì e non farti vedere da nessuno".
C'è un uccello blu nel mio cuore che vuole uscire ma io gli verso sopra del whisky e respiro fumo di sigaretta, e le puttane, i baristi e i commessi del supermercato non sanno che lui è lì.
C'è un uccello blu nel mio cuore che vuole uscire ma sono troppo duro per lui,
Dico "stai giù '! Vuoi farmi incasinare? Vuoi rovinare i miei lavori? Vuoi mandare a monte le vendite dei miei libri in Europa?"
C'è un uccello blu nel mio cuore che vuole uscire ma io sono troppo in gamba, lo faccio uscire solo di notte quando tutti dormono.
Dico "so che ci sei, quindi non essere triste", poi lo rimetto a posto ma lui canta un pochino lì dentro.
Non l'ho lasciato morire del tutto e dormiamo insieme così, con il nostro patto segreto, che è abbastanza bello da far piangere un uomo.
Ma io non piango.
E tu, piangi?