domenica 16 agosto 2020

     RICORDO INDIANO - AGOSTO 1987 

     8° parte - Agra


  

Dopo sei giorni in questa oasi di pace, torniamo a Delhi col solito bus ma ripartiamo subito il giorno dopo. Vogliamo raggiungere la città santa di Varanasi, nello stato dell'Uttar Pradesh, un tempo chiamata Benares dagli inglesi. Il viaggio in treno si prospetta di circa dodici ore quindi decidiamo di spezzarlo facendo tappa ad Agra, a soli 150 km, dove si trova uno dei simboli dell'India: il famosissimo mausoleo Taj Mahal*.

Primo impatto con i lentissimi treni indiani... c'è ancora la terza classe, la usano i contadini che salgono con i sacchi di merci e si siedono per terra perché i vagoni sono senza sedili, tipo carro bestiame con le porte aperte. Invece in prima e in seconda classe, dove siamo noi, ci sono delle sbarre ai finestrini senza vetro. Certo nessuno può sporgersi e cadere, ma neanche uscire in caso di emergenza! Scaccio i brutti pensieri leggendo Siddharta di Hermann Hesse, che mi accompagna fedele.

Arriviamo ad Agra nel tardo pomeriggio, è appena piovuto e l'aria è abbastanza fresca. La stazione è ancora più "indiana" di quella di Delhi, le mucche sono ovunque, persino sui ponti sopraelevati di passaggio. Io però non mi sento benissimo. Stavo chiacchierando molto piacevolmente mentre bevevo l'ultimo lassi a Pushkar... forse non ho controllato, ci doveva essere del ghiaccio che evito sempre accuratamente per evitare di prendermi l'ameba, terrore di ogni turista occidentale. Noi occidentali non hanno gli anticorpi per l'ameba come gli indiani, quindi bisogna evitare di bere acqua dalle fontane, di mangiare frutta appena lavata con la buccia, e qualsiasi bevanda che sia fatta con acqua o con aggiunta di ghiaccio. Trovare acqua minerale non è facilissimo ma non impossibile, e se non si trova quella, ci si accontenta delle bibite dolciastre al mango o della Campa Cola**, la versione hindu della Coca Cola. "Se non bevi Campa Cola in India non campi". La battuta di spirito viene fin troppo facile... 

Ci sistemiamo in uno dei soliti alberghetti economicissimi, sento di avere un po' di febbre e comincio a pregare che sia solo la famosa ed innocua maledizione del viaggiatore. Massimo va subito a visitare il Taj Mahal e io rimango sola nella mia stanzetta sotto le pale del ventilatore che girano lente. Massimo ha dimenticato la macchina fotografica... per oggi niente meraviglia del mondo.


Va un po' meglio il giorno dopo ma sono ancora disturbata. Nel tardo pomeriggio ripassiamo dal Taj Mahal, lo voglio vedere almeno da fuori, la visita sarebbe troppo lunga. Il caldo è veramente insopportabile. L'impressione è che sia tutto luccicante, come fatto di zucchero (l tempo ha alterato i colori delle diapositive virandole al blu, ma ho voluto lasciare così com'è la foto. Mi sembra l'altro ieri... sono passati trentatré anni.)

Non vedo l'ora di ripartire. Il ragazzo tedesco incontrato al Taj Mahal parla delle zanzare di Varanasi e ci consiglia di iniziare la profilassi con la clorochina. All'inizio del viaggio mi lavavo i denti con l'acqua minerale, prima di bere mettevo  gocce di amuchina anche in quella e prendevo clorochina poi mi sono rilassata pur rimanendo vigile e ho cominciato a godermi la realtà nella quale mi trovavo cercando di fluire il più possibile senza fare resistenza. Da lontano sembra sempre tutto più pauroso e terribile. Ho constatato che prendersi malattie serie non è così facile e col monsone in ritardo di zanzare neanche l'ombra. 

Il giorno dopo alla stazione, solita coda estenuante per i biglietti. Arrivo davanti allo sportello alle 12 meno un minuto e il bigliettaio tira giù la grata! "Eh no! Non sono ancora le 12!!" - "Sorry lady, now we close" (=Scusa signora, ora si chiude).
La forza della disperazione mi tira fuori un'insospettabile cipiglio da colonialista bianca e alzo la voce: "Call me your boss!" (=Chiamami il capo). L'impiegato riapre subito lo sportello e ci fa i biglietti... 
Mi ritrovo a riflettere sul potere che esercita la razza bianca alla quale appartengo. Da un lato il sollievo del poter evitare un ennesimo disagio fisico, dall'altro profonda vergogna. Vero è che gli indiani sono rigidi e la loro burocrazia asfissiante, ma questo non giustifica gran che.

Saliamo sul treno, lo zaino mi ha procurato due escoriazioni sulle clavicole che cominciano a dar noia e non vogliono guarire. Disinfetto, spalmo crema antibiotica, metto sopra fazzolettini puliti. I passeggeri osservano inespressivi queste operazioni come se guardassero un programma un po' noioso in tv.
Una bella signora con due bimbi siede di fianco a me. I bimbi dormono, il piccolo in braccio, l'altro di circa sei anni appoggiato alla mamma. Il viaggio è lungo. Dopo due ore il neonato viene cambiato velocemente e con gesti sicuri senza che nessuno si accorga di nulla. La mamma è molto dolce e attrezzatissima. Il più grande si sveglia, chiede acqua, beve e torna a dormire. In dodici ore ho sentito la sua voce solo due volte per chiedere acqua e cibo. Penso ai nostri lamentosi mocciosetti e alle loro madri apprensive e appiccicose e sento pena per la nostra società che tanto si auto-incensa per le sue grandi conquiste.

Ci svegliamo all'alba dopo una notte da incubo, nella cuccetta nella quale non riuscivo né a ripararmi, né a lamentarmi, per l'aria che entrava forte dal finestrino spalancato. Io e Massimo nella notte abbiamo finito l'acqua minerale. La sete che diventa sempre più insopportabile. Lui è in stato catatonico, io agitata perché perdo acqua non solo col sudore... la cosa si fa seria. Ad ogni stazione scendo di corsa dal treno e cerco affannosamente i soliti venditori di bibite ma, ahimè, vedo solo fontanelle ma non posso rischiare. Sul treno passano i bambini-venditori di tè bollente con le tipiche scodelline di terracotta*, quelle che tutti buttano a terra e che si disintegrano in breve tempo con le intemperie. Purtroppo è come versare cucchiaiate d'acqua in una barca con la falla. All'ennesima stazione, sempre più disperata, mi trattengo sul marciapiede forse un po' di più e il treno accenna lentamente a ripartire. Corro veloce e prima che il treno cominci ad accelerare, riesco ad agganciare il maniglione della terza classe e a salire con un balzo. Mi ritrovo in mezzo a un gruppo di anziane contadine accovacciate a terra in mezzo a sacchi di mele. Mi guardano mute. Accenno un sorriso. Una di loro sorride in risposta. Mi accovaccio guardando fuori dalla porta aperta. Non ho voglia di morire di sete... Scopro che non posso accedere al nostro vagone perché la terza classe è chiusa al resto del treno. Immagino Massimo che mi dà per dispersa. Provo di calmare l'ansia. Ho la lingua appiccicata al palato, so che ora è bianchissima, cerco di produrre saliva e di inumidire le labbra ma non riesco. 

La contadina che mi ha sorriso nota i miei sforzi e mi offre una mela. Faccio no con la testa indicando la bocca secca ma lei insiste facendo il gesto di succhiare la mela invece di morderla... saggia donna... Il succo acidulo mi dà un po' di sollievo. Ancora linguaggio non verbale, ancora immediatezza. 

Il treno si ferma, saluto calorosamente, salto giù di corsa e risalgo in seconda classe. Raggiungo Massimo e lo trovo che dorme tranquillo con la bocca aperta. Probabilmente non si è accorto di niente.
Altra lezione sull'ansia: è quasi sempre immotivata oltre che inutile.

 Tazzine di terracotta. Da molti anni sono di plastica e contribuiscono all'inquinamento praticamente inesistente al tempo di questo viaggio, nel 1987

** Il Tāj Maḥal è un mausoleo situato ad Agra, nell'India settentrionale (stato di Uttar Pradesh), costruito nel 1632 dall'imperatore moghul Shāh Jahān in memoria dell'amatissima moglie preferita Arjumand Banu Begum, meglio conosciuta come Mumtāz Maḥal. Nonostante vi siano molti dubbi riguardo al nome dell'architetto che lo progettò, generalmente si tende a considerare Ustad Ahmad Lahauri il padre dell'opera. Compreso dal 9 dicembre 1983 nella lista dei patrimoni dell'umanità dell'UNESCO e inserito nel 2007 fra le nuove sette meraviglie del mondo, è da sempre considerato uno delle più notevoli bellezze dell'architettura musulmana in India.

*** Campa Cola era una marchio relativo a una bibita in vendita in India fino al 2000. Leader del mercato in alcune regioni del paese finché non sbarcarono i due colossi Pepsi e Coca Cola dopo le liberalizzazioni del mercato attuate dal Primo Ministro Pamulaparthi Venkata Narasimha Rao nel 1991. Campa Cola fu creata dalla Pure Drinks Group Pvt. Ltd. nel 1977, ed è da considerarsi la pioniera delle bibite nel paese asiatico, anche perché vi introdusse la Coca-Cola nel 1949. La Coca-Cola fu cacciata dall'India negli anni settanta. Quindi la società monopolizzò l'intera industria indiana delle bibite per 20 anni senza concorrenza alcuna soprattutto da parte degli stranieri.



CONTINUA CON LA 9° PARTE:

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