giovedì 12 agosto 2021

                                           RICORDO INDIANO - AGOSTO 1987 

     13° e ultima parte - Parvati Valley, Delhi e ritorno in Italia




La Parvati Valley è una meraviglia assoluta. Facciamo amicizia con due ragazze francesi di Rouen che sono ospiti del nostro stesso albergo. Sono molto simpatiche e gioiose, visitiamo insieme questa valle paradisiaca e di nuovo la Manali Valley il giorno dopo. Purtroppo devono partire prima di noi perché hanno qualcosa da fare a Delhi, ci scambiamo gli indirizzi e, nell'attesa del bus, chiacchieriamo e ridiamo con il ragazzo dell'albergo che continua a far battute a raffica. Il nostro bus parte nel tardo pomeriggio. Ci aspettano dodici ore di viaggio e una notte non proprio comoda. Questo si rivela una sorta di sogno in stato ipnagocico mentre corriamo in discesa senza che noi possiamo vedere gran che dalla nostra posizione. 

Tutto è immerso nel buio. Il motore urla e tossisce ad ogni cambio di marcia. In basso un tappeto di stelle... sono le lucine delle case sparse nelle valli sotto di noi. Tutto si confonde. Mi affido... affido il bus e tutti i suoi passeggeri al dio Shiva, che ci sostenga in questa folle corsa che forse non è poi così veloce ma a me pare una caduta libera nell'abisso.





Intorno a me solo indiani. Alcuni assopiti, altri con gli occhi aperti e impenetrabili. Non conoscono ansia, non si pongono dubbi, si affidano al dio perché sanno che tanto non c'è altro da fare. Chiudo gli occhi. Cerco di fare lo stesso. L'ansia che è nella pancia e la paura che si è impadronita della mia mente, pian piano lasciano la presa. Respiro profondo. Affidarsi al destino, alla volontà del Padre, al divino e al Suo Piano fa scendere la pace nel cuore e alla fine mi assopisco in un dormiveglia quasi piacevole nonostante lo sballottamento.

Siamo seduti in quattro su posti da tre. Massimo è rannicchiato e sembra in meditazione profonda da due ore. Il bus si ferma ogni tanto presso dei baracchini che vengono chai e cibo, io mi precipito giù ogni volta per sgranchirmi ma lui non vuole scendere, sembra annichilito e rimane abbracciato alle sue gambe come se volessero portargliele via.

Finalmente all'alba arriviamo a Delhi e la stazione dei bus è allagata dalla pioggia monsonica venuta giù a cataratte. Ci togliamo le scarpe e camminiamo alla cieca nell'acqua nera sul pavimento liscio. A postumi, anni dopo, ripensandoci, ho pensato al rischio corso, avrei potuto tagliarmi e infettarmi facilmente. Il pensiero non mi aveva sfiorato allora così come non mi hanno sfiorato mille altri pensieri che la “ragione” della maturità mi avrebbe suggerito. Non ero imprudente, anzi, ho persino passato i primi giorni a lavarmi i denti con acqua minerale, ho evitato accuratamente il ghiaccio, i succhi di canna da zucchero (infatti non so che sapore abbia), la frutta offerta per strada e l'acqua delle fontane, per terrore dell'ameba ma la paura non mi lasciava. Poi dopo dieci giorni sono diventata come gli indiani: fatalista e rilassata. La tipica ansia occidentale ha lasciato il posto ad una sorta di felice rassegnazione al dio di tutte le cose e di tutti gli esseri senzienti. Sicura di aver fatto tutto il possibile ho lasciato a lui la responsabilità e così la Gioia mi è entrata nel cuore e non mi ha più lasciata fino al ritorno.







Ma non è così che si dovrebbe vivere sempre? Non è così che si viveva anticamente? Cosa cambia se anche dopo aver preso ogni precauzione ci preoccupiamo al punto da temere ogni passo, ogni cibo sconosciuto, ogni eventuale imprevisto? Nulla. Non cambia assolutamente nulla. La Vita è un'avventura, un romanzo dal finale a sorpresa. Gli oracoli tentano di prevedere, ma anche dopo il loro responso si ha la sensazione che sia tutto inutile e che l'ineluttabile possa comunque sorprenderci.

Ecco, il ritorno a Delhi è stato molto strano. Nessun bimbo ci chiedeva l'elemosina, nessun mendicante allungava pietosamente la mano, mischiati alla massa colorata di indiani in strada eravamo diventati invisibili. I nostri vestiti erano ormai uguali ai loro e anche se la pelle rivelava la nostra origine nessuno più ci considerava “turisti”. I turisti, questa specie umana spuntata meno di due secoli fa*, è una buffa e imbarazzante orda che invade ogni luogo del pianeta scambiandolo per uno zoo safari. Con sguardo interessato e curioso fotografiamo tutto e tutti per avere un “ricordo-trofeo” da mostrare a parenti e amici. Alla fine di questo viaggio quando incontravamo dei "turisti" mi sentivo in imbarazzo per loro e per noi. Specialmente i grupponi intorno alle attrazioni cittadine, le bandierine ridicole delle guide, le loro risate sguaiate, mi facevano sentire profonda vergogna per il genere Homo Sapiens Sapiens al quale appartengo. L'India mi ha tolto un po' dei veli che avevo davanti agli occhi. 

Siamo arrivati anche noi da turisti, inconsapevoli di cosa ci aspettava, e l'India ci ha trasformato in viaggiatori. Dopo tanta fatica e tanti sorrisi, lo sguardo si addolcisce, perde quella voglia di indagare, quell'impertinente scrutare e la sensazione di essere della stessa famiglia penetra in noi con l'aria. Le incomprensibili cantilene dei baba diventano musica familiare, il sudore prende l'odore delle spezie e lentamente i colori spenti degli abiti portati da casa diventano inguardabili e scomodi.

Ma un'altra sorpresa ci aspetta a Delhi. Nell'hotel che abbiamo scelto nel vecchio quartiere di Paharganj sono alloggiate anche le due ragazze francesi di Rouen! Se ci fossimo messi d'accordo sarebbe stato più difficile! Ci abbracciamo felici di esserci ritrovati e come bambini improvvisiamo una specie di girotondo. Durante il viaggio in questo subcontinente immenso, ho anche incontrato una persona che abitava nella mia stessa via... 

Ceniamo in un elegante ristorante musulmano, il primo e l'ultimo del viaggio. Spendiamo così gli ultimi soldi. I gusti sono simili a quelli assaporati durante questi quaranta giorni ma incredibilmente più raffinati. I profumi delicati delle spezie si fondono con armonia sapiente stimolando l'appetito senza aggredire il palato. Tutto è perfetto, i camerieri affabili e la musica a basso volume contribuisce a rendere struggente questa ultima sera.

Il giorno dopo, all'aeroporto, indosso il mio punjabi rosa e i sandali bordoux. Sono eccitata per la partenza e la paura del volo in aereo ancora non mi attanaglia. C'è un problema: Massimo si accorge di non aver conservato i soldi per la tassa di imbarco. Provvedo io. Mio padre mi ha insegnato che non è mai saggio rimanere completamente senza soldi in tasca, qualcosa per le emergenze bisogna tenerlo.

"Buonasera, è il comandante che vi parla: c'è una perturbazione sull'oceano indiano, cercheremo di passarle sopra". Vorrei fuggire! E invece partiamo, e miracolosamente, non so come, forse per la stanchezza, mi assopisco per un quarto d'ora. Apro gli occhi e chiedo a Massimo: "E la perturbazione?" - "Siamo già molto oltre". Miracolo. Prima ed ultima volta che mi sono addormentata su di un aereo...

A Caselle ci aspettano mio padre Edoardo e mia madre Gemma, felici di rivederci e io eccitatissima per tutto quello che non vedo l'ora di raccontare, soprattutto a mio padre.

Due giorni dopo una tristezza infinita si impadronisce del mio cuore. Torino di fine agosto mi appare di uno squallore insopportabile. Non so spiegare cosa esattamente mi fa stare così male nella mia città. Provo ad analizzare, a fare paragoni ma non riesco ad individuare qualcosa di preciso. La nostalgia, sottile come una lama, mi trapassa il cuore. Mi manca tutto dell'India: gli occhi e i sorrisi dei bambini, gli odori, i colori, l'incenso dei templi, le voci e anche i clacson, il traffico scomposto, persino lo sporco per strada mi manca, forse perché qui è tutto troppo prevedibile, ordinato, controllato, artificiale. Per certi versi l'India è come eravamo noi forse 100, 200, 300 anni fa. La terribile nostalgia rimane con me fino all'autunno. Per due settimane continuo a vestirmi con indumenti indiani e mangio riso al curry. Non riesco a riadattarmi. Il culture shock (= shock culturale) è troppo forte. Come sette anni prima al ritorno dopo un anno nel Wisconsin (U.S.A.), dove con i miei amici vivevo libera in campagna vicino alla foresta. Eravamo tutti hippies senza saperlo. Sono ancora hippy nell'anima, lo rimarrò sempre al di là dell'abito, perché la civiltà dei consumi e la cultura di massa uccidono l'anima e io alla mia anima ci tengo, mi parla ancora e io la ascolto.





Il grande Tiziano Terzani ha espresso perfettamente questo sentimento nel suo meraviglioso libro Un altro giro di giostra. Esprime magistralmente quello che ho sentito e che sento ancora e che ho umilmente cercato di raccontare in questo modesto racconto.

"Chi ama l'India lo sa: non si sa esattamente perché la si ama. E' sporca, è povera, è infetta; a volte è ladra e bugiarda, spesso maleodorante, corrotta, impietosa e indifferente. Eppure, una volta incontrata non se ne può fare a meno. Si soffre a starne lontani. Ma così è l'amore: istintivo, inspiegabile, disinteressato.
Innamorati, non si sente ragione; non si ha paura di nulla; si è disposti a tutto. Innamorati, ci si sente inebriati di libertà; si ha l'impressione di poter abbracciare il mondo intero e ci pare che l'intero mondo ci abbracci. L'India, a meno di odiarla al primo impatto, induce presto questa esaltazione: fa sentire ognuno parte del creato. In India non ci si sente mai soli, mai completamente separati dal resto. E qui sta il suo fascino.
Alcuni millenni fa i suoi saggi, i Riishi, "coloro che vedono", ebbero l'intuizione che la vita è una, e questa esperienza, rinnovata religiosamente di generazione in generazione, è il nocciolo del grande contributo dell'India all'incivilimento dell'uomo e allo sviluppo della sua coscienza. Ogni vita, la mia e quella di un albero, è parte di un tutto dalle mille forme che è la vita.
(...) In India si è diversi che altrove. Si provano altre emozioni. In India si pensano altri pensieri. Forse perché in India il tempo non è sentito come una linea retta, ma circolare, passato, presente e futuro non hanno qui il valore che hanno da noi; qui il progresso non è il fine delle azioni umane, visto che tutto si ripete e che l'avanzare è considerato una pura illusione.
Forse perché qui la realtà percepita dai sensi non è generalmente presa per vera, non è la "Realtà Ultima", l'India infonde, anche in chi non crede in tutto questo, uno stato d'animo di distacco che rende il paese così particolare e la sua realtà, a volte proprio orribile, in fondo accettabile. Accettabile perché così è la vita: è tutto e il contrario di tutto, è stupenda e crudele. Perché la vita è anche la morte, e perché non c'è piacere senza dolore, non c'è felicità senza sofferenza.
In nessun altro posto al mondo la contrapposizione degli opposti - bellezza e mostruosità, ricchezza e povertà - è così drammatica, così sfacciata come in India. Ma è stata proprio questa visione dell'inevitabile dualità dell'esistenza che spinse i Riishi a cercarne il significato recondito, che ancora oggi sembra agire come un catalizzatore spirituale in chi ci si avventura.
Basta metterci piede, in India, per provare questo mutamento. Innanzitutto ci si sente più in pace. Con se stessi e col mondo. (...)
«L'India è una esperienza che ti accorcia la vita», mi disse Dieter Ludwig il giorno in cui, anni fa, arrivai a Delhi per piantarci definitivamente le mie tende. Poi aggiunse: «Ma è anche un'esperienza che dà senso alla vita ».
In India niente può essere dato per scontato (...) ma in India ci si adatta, si accetta, e presto si entra in quella logica per cui niente è davvero drammatico, niente è terribilmente importante. In fondo tutto è già avvenuto in maniera simile tante altre volte prima e si sa che avverrà infinite volte dopo. L’India resta se stessa, e a suo modo questo è acquetante.
L’India ti fa sentire semplicemente umano, naturalmente mortale; ti fa capire che sei una delle tante comparse in un grande, assurdo spettacolo di cui solo noi occidentali pensiamo di essere i registi e di poter decidere come va a finire.
L’idea che l’uomo sia superiore alla bestie e che per questo ha il diritto di sfruttarle ed ucciderle a piacimento, in India è semplicemente inconcepibile.
La natura non è lì perché l’uomo ne faccia quel che vuole. Niente è suo. E se l’uomo si serve di quel che c’è, deve dare qualcosa in cambio: almeno un ringraziamento agli Dei che l’hanno creato. E poi, l’uomo stesso è parte della natura. La sua esistenza dipende dalla natura e l’Indiano sa che “la rana non beve l’acqua dello stagno in cui vive” …."

(Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra)


Quello che oggi si chiama turismo, cioè il viaggio organizzato, ha una data di origine certa ed un inventore ben determinato: il 5 luglio 1841, Thomas Cook, sfruttando le nuove possibilità offerte dal treno, organizzò un viaggio di 11 miglia da Leicester a Loughborough: ben 570 persone vi parteciparono e il successo fu tale da spingere lo stesso Cook ad organizzare pacchetti turistici sempre più particolareggiati, dando inizio all'industria turistica modernamente intesa. Con l'industrializzazione, il turismo diventò alla portata di più persone, ma restavano ancora pochi quelli che si potevano permettere una vera vacanza.

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